Al di là della noia: se Tu squarciassi i cieli!
Io vi vengo incontro, ma voi vigilate!
Oggi c’è chi nutre ancora attese significative di giustizia e santità ma, a causa della dilazione e dei ritardi, rischia di entrare nella massa di chi non attende più nulla. E mi scopro fra questi. Ci occorre un supplemento di pazienza attiva, di resistenza. C’è un’inquietudine della coscienza che è indizio di sensibilità, di vita, di fede. Con lo scrittore francese Julien Green potremmo dire “Quando si è inquieti si può stare tranquilli”. Non nutriamo più alcuna attesa significativa, soprattutto noi vecchi. Abbiamo gli occhi disillusi rivolti in basso. Ma ce n’è anche per i più giovani: benessere, distrazioni, banalità e superficialità sono come una rete che imprigionano il cervello. L’evangelista Matteo scriveva: “In quei giorni gli uomini mangiavano e bevevano, si sposavano, fino a quando Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finchè venne il diluvio e inghiottì tutti” (Mt. 24, 38-39). Serve un supplemento di fame e sete, di orizzonti più vasti, di utopie.
Oggi c’è chi è soddisfatto della propria posizione religiosa e si è assestato con gli occhi rivolti indietro o dentro. Non sospettano che Dio possa essere diverso nè che possa chiedere altro, oltre quello che loro sanno dare. I tempi di Avvento e Natale pronunciano le parole dell’attesa, del compimento, dell’incontro, dell’intimità e della festa.
Tempi, questi che viviamo, di immonde stupidità politiche. Siamo annoiati dalla rapidità malsana con cui gli eventi si clonano di padre in figlio, di generazione in generazione. Capita a tutti di essere colpiti dalla noia. La nostra vita è ripetitiva in pensieri, parole, opere e omissioni. Accade così che davanti a questa monotonia storica e quotidiana noi ci annoiamo, ci sentiamo estranei e lontani; o restiamo sempre in attesa di una qualche novità, di un qualche evento straordinario che ci risvegli dal torpore della noia, ridonandoci gioia e speranza. Noia del luogo in cui ci troviamo, delle opere in cui siamo coinvolti e, addirittura, delle persone che ci stanno intorno: un inutile vagare, un continuo dormiveglia.
E ormai lontana la chiusura del Concilio Vaticano II in quel 8 dicembre del 1965 per riuscire a risvegliare la voglia di tastare il viso alla chiesa cercando di scorgervi la nascita di un sorriso.
Dagli anni ’60 la chiesa guardò a se stessa e si vide vecchia e atrofizzata. E Giovanni XXIII, un santo sognatore, convocò un Concilio Ecumenico. “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, soprattutto dei poveri e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, E nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Gaudium et Spes, 1ss).
Parole dei padri conciliari, che ancora oggi costituiscono l’acceleratore per una chiesa che è tornata ad essere conservatrice e a svernare in letargo. Il Concilio ha cessato di essere una notizia. Guardando oggi di nuovo a noi-chiesa ci chiediamo: siamo tornati indietro? Anche il laicato cristiano è simile a quei bambini che, iniziando a camminare, hanno paura se cadono e riprendono nuovamente a desiderare le antiche sicurezze di box deresponsabilizzanti e protettivi, di fibbie reggenti devozionali e guinzagli clericali moderatamente contenitivi. Un ampio settore dei responsabili ecclesiastici preferisce il freno all’acceleratore, il sospetto nei confronti dell’uomo piuttosto che la fiducia in lui, il potere più che il servizio, la difesa della sua struttura più che la lotta per la causa dei poveri.
Non tutta la chiesa, grazie a Dio. Perché ci sono settori di noi-chiesa che guardano meno alla struttura e più a Gesù, più a quelli di sotto e meno a quelli di sopra. E’, senza dubbio, il frutto di quel Concilio che, gli uni e gli altri, potremmo spegnere. Questa noi-chiesa fiorisce ovunque nei piccoli gruppi o comunità, nella periferia delle grandi città, nei quartieri, nelle associazioni popolari, dentro e fuori i nostri limiti geografici; fa causa comune con i poveri che anelano al ritorno del Signore che “andò all’estero, lasciò la sua casa, l’affidò ai suoi servi affidando a ciascuno il suo compito, e al portinaio comandò “stai vigile”. E raccomandò: “state vigili, perché non sapete quando giungerà il padrone di casa, se a sera, a mezzanotte, al canto del gallo o all’alba, che non giunga all’improvviso e vi trovi addormentati“.
Don Augusto Fontana